BRANZINATURA 3/2024: Affinità e divergenze tra Anacleto Verrecchia e noi
Un percorso personale dopo la lettura di “Meglio un demonio che un cretino”
Ho pensato a questo nome/hashtag #branzinature (scusandomi ove fosse già stato sfruttato) per aggregare spunti culturali acerbi, bizzarri o “nati troppo stanchi” per diventare veri e propri blog post. Le branzinature vanno in onda sul mio Substack “ortonimo” in modo totalmente irregolare. Praticamente, solo quando mi viene qualche idea. Si direbbero “spigolature” – però dalle mie parti, se chiedi «una spigola», quasi nessuno ti capisce… (questo vorrebbe essere un calembour).
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Buona lettura!
AFFINITÀ E DIVERGENZE TRA ANACLETO VERRECCHIA E NOI
Leggo Meglio un demonio che un cretino (scheda SBN), l’antologia di aforismi e pensieri di Anacleto Verrecchia, curata da Dario Stanca, aforista egli stesso e studioso. Il libro è pubblicato da El Doctor Sax, una casa editrice italiana con sede a Valencia. Alla ampia prefazione di Stanca, che ci introduce alla biografia, ai maestri, ai temi e bersagli fondamentali della penna di Verrecchia, fa da ideale parallelo, a mo’ di postfazione, una breve ed emotivamente partecipata nota di Mimmo Fògola, Editore di alcuni capisaldi del Nostro, a partire dalla monografia su Prezzolini del 1995, fino al 2014 (quindi, fino a due anni dopo la scomparsa di Verrecchia).
Alcune cose mi affratellano al pensiero di Verrecchia, alcune (di più) me ne separano.
Mi accomunano al pensatore: il radicale pessimismo sulla natura umana e sulle sorti del pianeta (le annotazioni di viaggio sembrano intuire la crisi climatica, oggi palese); la implacabile diffidenza verso pressoché ogni tipo di religione (anche qui, con ampia previsione dei conflitti attuali) e verso i suoi, spesso pretestuosi e furbi, vessilliferi; la deroga a questo intransigente rifiuto che sta nel fascino esercitato dal buddismo (visto più come filosofia, d’après Schopenhauer, sempiterno faro di Verrecchia) e da un naturalismo panico che credo scaturisca dall’intenso studio monografico su Giordano Bruno e il suo Deus sive natura; infine, ma non certo ultima, la predisposizione a ricercare l’illuminazione più nella scaturigine, nel frammento (poetico, aforistico o della breve annotazione) che nella lunga trattazione, letteraria o saggistica. Oltre a ciò, mi colpisce qualche singola sferzata, rivolta ad alcuni avversari comuni (p. 124: «Essere borghesi significa vivere nell’opinione degli altri»… Caspita! La storia della mia famiglia in sole otto parole!).
Su molte altre posizioni dell’A. dissento, e ne tocco solo una: pur scrivendo versi e non avendo alcuna formazione scientifica, non penso affatto che i poeti si avvicinino alla verità più degli scienziati. Al contrario. E credo che se ci troviamo in piena “età della tecnica” in luogo della “età della poesia” ci siano delle valide ragioni sostanziali (ed è curioso che in una annotazione si citi – per altri motivi – quel Thomas Love Peacock che nel suo The Four Ages of Poetry sosteneva proprio che la scienza avesse soppiantato la poesia a buon diritto). Ad appianare il dissenso, la sensazione che Verrecchia guardasse soprattutto ai grandi poeti del passato (Lucrezio in primis), più che a quella poesia (ed editoria) di oggi che, con una netta accelerazione dal 2017 (quando il Nostro già mancava), si è ormai incistata e incancrenita in posizioni irrazionaliste, antiscientiste ed esoteriche; spesso facendosi megafono – a seconda dei casi, intenzionalmente o senza nemmeno accorgersene – proprio della religione, ossia proprio di quel teismo definito seccamente una «assurdità colossale» (p. 85) proprio dall’A. – quando non della politica che la cavalca per proprio tornaconto. Caro Verrecchia: fuori dalla propria bolla, il poeta di oggi è spesso visto come quel cretino che giustamente nei tuoi aforismi aborri; e, dall’interno (forse) della categoria, non mi sento più di dire che si tratti di uno scotoma.
Anche se a chi mi segue da tempo può apparire un segreto di Pulcinella, il grosso e il restante di ciò che mi divide dal pensiero di Verrecchia lo tengo per me, perché altrimenti finisco col parlare di me stesso anziché del libro! Cosa che, peraltro, è quasi ineludibile in ogni nota di lettura. Avverrà, infatti, anche qui di seguito; ma, se proprio devo brandire l’arma impropria del “narcisismo di lettura” (citando una locuzione cara a Maria Grazia Beverini Del Santo), allora tanto meglio disporlo dentro un percorso laterale e “mio” lungo il libro, dentro un itinerario che mi sblocca nella mente altre letture, citazioni e perfino mie scritture del passato che avevo quasi dimenticato. Questo intendo fare, a maggior ragione nei confronti di un Autore più che sospettoso verso la “critica” artistica di qualunque tipo, dunque anche letteraria!
Pensandoci bene, credo infatti che il corretto approccio e in ultima analisi il valore di qualunque aforismario, più che nel vedere il lettore più o meno d’accordo – “qui sì, qui no”… célo… manca! – col suo estensore, stia nella intertestualità che riesce a provocare nel lettore. Nella forza con cui riesce a stabilire collegamenti precisi con ciò che hai letto, visto, scritto e perfino vissuto fin qui. Poiché, secondo una massima in auge, ricondotta a Paul Valéry ma di cui non ho mai reperito la fonte esatta, «nulla può essere né completamente nuovo né completamente non-nuovo».
Leggendo questo libro ho dunque ritrovato e dialogato con molti passaggi e pensatori già incontrati (per es. Seneca, Kavafis, Cicerone, Lucrezio; Cioran, che peraltro ha una concezione di “libro riuscito” antitetica a quella di Verrecchia; poi un Maeterlinck stracitato ma d’insicura attribuzione). Meno prevedibilmente, almeno per me, sono tornato allo Sciascia di Nero su nero; a un passo di Aurora Leigh, romanzo in versi e capolavoro di Elizabeth Barrett Browning; perfino alla sceneggiatura di Blade Runner! Lascio al lettore il compito e l’eventuale euforia di reperire questi agganci.
Ma un valore ancor più euforizzante (e chissà quanto trasmissibile a chi mi legge) del libro di Verrecchia l’ho trovato e goduto nell’aggancio col mio vissuto, personale e poetico.
Qui, nello specifico, viene in rilievo il tema del rispetto – autentico e davvero pervasivo, praticamente panteistico – verso la natura. Verrecchia ha lavorato tre anni, dal 1950 al 1953, come guardia del Parco del Gran Paradiso – come attesta il Diario pubblicato da Fògola nel 1997, qui ampiamente antologizzato in testa al libro – e ivi ha sviluppato un profondo amore per gli animali e una coscienza ecologica notevole. Non esaurendo negli anni successivi, oltretutto, il suo ecologismo in mera speculazione (come chi pensa che per fare poesia “verde” basti stilare un erbario e/o dirsi antispecista e lasciare l’uomo alle sue azioni scellerate), bensì cogliendo già come l’inquinamento delle metropoli (cfr. viaggio a Delhi) o la corsa mai doma agli armamenti nucleari portano e porteranno alla distruzione non solo dell’uomo ma, con lui, di una marea di specie animali e vegetali incolpevoli e, se non di tutta, di buona parte della biosfera (arrivo ad azzardare che Verrecchia, scomparso nel 2012, non avrebbe affatto visto con disfavore le più recenti proteste ambientaliste, anche estreme).
Quando si parla di animali, poi, le pagine del corrosivo scrittore assumono spesso un registro inusitatamente delicato. A p. 40 ho avuto un vero e proprio sussulto:
«I naturalisti classificano gli animali, ma bisogna fare un passo più in là e riconoscere che gli animali, intimamente, non sono diversi da te e me. Leggere negli occhi di un animale è molto più importante che sapere a quale specie appartenga ai quali abitudini abbia» (da Diario del Gran Paradiso).
Leggere negli occhi di un animale, chiedendo scusa per l’autocitazione, mi ha riportato quasi letteralmente e con tuffo al cuore al mio libro più sanguigno e personale, alle Cinquantaseicozze del 2015 (scritte tra 2011 e 2012) e alla poesia in cui (mi) esorto a «imparare l’occhio placido dell’animale che spira». Nella specie, di un’aguglia che mi è spirata da sola tra le mani:
{Un altro possibile collegamento col mio libro, dunque col mio vissuto (trattasi infatti della mia raccolta più “personale” e meno filtrata) è nella visione della identificazione divina con l’avvenenza femminile (cfr. p. 55 e la mia “cozza” XI). Ma lo lascio al lettore (per abbozzarla di pubblicizzare le mie scritture! e) perché spinto da spiriti e umori meno colllimanti. Torno quindi alla tematica animalista e al suo modo di parlarmi.}
Altra angolazione del tema: Verrecchia, scagliandosi contro la religione e i suoi alfieri, vede una confutazione della bontà divina nella crudeltà riservata agli animali (p. 42):
«Un tema da proporre ai teologi che parlano continuamente della bontà di Dio e del suo mondo: gli animali più miti e innocenti, come per esempio la mucca e la pecora, sono quelli che vengono scannati con più frequenza» (da Diario del Gran Paradiso).
Con ciò richiamando pressoché in pieno, credo consciamente, alcuni versi del Lied Das himmlische Leben (La vita celestiale) il canto popolare del Des knaben Wunderhorn che chiude anche la Quarta di Mahler – in cui letteralmente “San Luca scanna il bue senza pensarci tanto” e si portano lietamente a morte agnellini (e pesci e altro) perfino in paradiso. A suo tempo, nella quarta delle mie Quartine mahleriane datate 2009 (aridaje con l’autocitazionismo, giuro che ora smetto), pure io ho additato le «ipocrisie» celestiali che son lo specchio di quelle terrene.
Forse Mahler (alla cui musica Verrecchia non risparmia, nel libro, qualche deminutio, cfr. p. 86) propone questa visione contraddittoria avendo coscienza della contraddizione – oltretutto dichiaratamente fanciullesca nella tradizione popolare: è un fanciullo, nella sua ingenuità, a parlare; difatti, nella quarta, la parte vocale è talora affidata non al soprano ma a un fanciullo, cfr. l’incisione digitale di Leonard Bernstein con la Concertgebouw, per molti quella di riferimento:
Di certo, però, il problema del contemperamento tra religione e condizione animale mi sblocca un altro ricordo potente, quello del mio docente di Filosofia del diritto, Luigi Lombardi Vallauri, che, come credente, sentiva con forza il problema almeno fin dagli anni ‘90.
Ancora Verrecchia, a p. 127:
«Chi riuscirà a spezzare il luogo comune, di derivazione cristiana, che nega agli animali non solo l’intelligenza, ma anche la capacità di soffrire e amare?» (da La stufa dell’Anticristo).
Ed ecco che, infatti, nel programma d’esame di Filosofia del diritto c’era un saggio dal titolo Teodicea [ossia difesa di Dio, della religione] e condizione animale, che indicava il problema e la necessità urgente di sciogliere le contraddizioni.
Grazie al libro di Verrecchia sono tornato sul punto e ho scoperto che quel saggio di Lombardi Vallauri – che negli novanta era un breve capitolo a sé, a chiusura di un libro che trattava anche di molto altro – ha ricevuto nei decenni successivi un approfondimento notevole e organico – mirando, oltre al contemperamento fideistico, anche (e direi soprattutto) a una azione politica e costituzionale volta a un maggior riconoscimento e tutela della condizione animale. Compresa la istituzione di corsi universitari di Etica del comportamento verso gli animali: oggi il nucleo del pensiero del mio ex docente sul tema (compreso il saggio di cui sopra) è raccolto in un volume monografico, Scritti animali, edito da Gesualdo Edizioni (scheda SBN); l’indice è liberamente consultabile a questo link.
Con questo ricordo, e dopo questo excursus volutamente e marcatamente personale, concludo sul libro ben curato da Dario Stanca, incoraggiandoti a cercare un analogo confronto tra il tuo bagaglio e qualcuno dei temi che stanno a cuore a Verrecchia – e sempre cum grano salis: senza alzarsi da tavola se qualcosa ti urta, ma anche con quel distacco dato dalla consapevolezza dolceamara che purtroppo c’è sempre qualche pensiero – in Verrecchia, come forse in ogni aforista – suscettibile di essere tirato per la giacchetta da compagnie diversamente ideali, diciamo così.
[Anacleto VERRECCHIA, Meglio un demonio che un cretino, cur. D. Stanca, Valencia: El Doctor Sax, 2023, pp. 159, EAN 9798391514497, ebook n/d]
Alla prossima branzinatura, che chissà quando sarà (dipende dai miei neuroni). Nel frattempo, se proprio non puoi fare a meno delle mie scritture, accomodati pure nella stanza Substack di là, dove ci sono alcune mie poesie (progetto concluso per ora, ma mai dire mai). Oppure sul mio blog Altervista, che è una specie di casa madre per le mie scritture.
Love and sea bass, RRC
Che gran lavoro, complimenti.