Carlos Drummond de Andrade, Conclusão
Originale, tre (update: quattro) traduzioni e appunti su una delle più belle “metapoesie” di sempre.
Carlos DRUMMOND DE ANDRADE (1902-1987)
Da Fazendeiro do ar, 1954 (ristampa 2012)
CONCLUSÃO Os impactos de amor não são poesia (tentaram ser: aspiração noturna). A memória infantil e o outono pobre vasam no verso de nossa urna diurna. Que é poesia, o belo? Não é poesia, e o que não é poesia não tem fala. Nem o mistério em si nem velhos nomes poesia são: coxa, fúria, cabala. Então, desanimamos. Adeus, tudo! A mala pronta, o corpo desprendido, resta a alegria de estar só, e mudo. De que se formam nossos poemas? Onde? Que sonho envenenado lhes responde, se o poeta é um ressentido, e o mais são nuvens?
Questo capolavoro di metapoesia – ossia poesia sul fare poesia e sulla condizione di poeta – steso dal grande Autore mineiro in forma di sonetto parzialmente rimato (rima sui versi pari delle quartine, poi due rime baciate in ogni terzina), è “tosto” da tradurre, sia per i concetti che esprime, sia per la grande musicalità (complice la lingua), come si può sentire da questa lettura (altrettante sono in rete, basta cercare per autore e titolo). In particolare, aspiraçao noturna è qualcosa di così musicale da costituire quasi un monito al traduttore a non mettersi all’opera, a godersela così com’è:
Devo l’amore per questa poesia al suo verso di chiusura: molti anni fa ho trovato la massima – ossia l’ultimo verso, senza il “se” iniziale e il punto di domanda: «Il poeta è un risentito, e il resto è nuvole» – in un libro autorevolissimo ma anche brillante e divulgativo, fondamentale per la mia presunta formazione. Non lo cito solo perché, purtroppo, l’A. vi compie una svista, che non è stata corretta neppure nella riedizione del libro, e attribuisce il verso a… Machado. Facepalm! Comunque, mi sono innamorato a prima vista della citazione e da lì sono risalito al vero autore e alla poesia intera, confrontandomi più di recente con le sue varie traduzioni.
Accenno en passant al fatto che questa non è la sola ars poetica di Drummond De Andrade: nove anni prima, nel 1945, in forma e con disposizione completamente diversa (versi liberi e sciolti, poesia lunga), aveva scritto Procura da poesia, che puoi leggere qui nella traduzione di Giulia Lanciani e in originale. Si può considerare questa poesia, molto famosa, un prodromo di Conclusão: anche qui il Poeta lavora per sottrazione (cioè sfrondando da ciò che non è poesia, più che definendo ciò che lo è) e per cadenza d’inganno (rivedendo le proprie deduzioni). Continuo però a preferire – per concisione, misura ed eleganza, ma anche per quel senso di resa che trasuda dai versi – la prova più tarda che ti sto presentando.
Resta fermo che la traduzione è piuttosto ardua. Di seguito te ne propongo tre. La prima è la più nota, ossia quella di Antonio Tabucchi, all’interno di una scelta di poesie di Drummond. Analoga ambientazione antologica per la versione, in lingua inglese, di Virginia de Araújo. In terzo luogo, ho il piacere di presentare la versione di un Poeta e traduttore sempre molto attento a preservare il più possibile rima e ritmo (cfr. il suo recente e consigliato quaderno di traduzioni), Sergio Pasquandrea. In calce, alcuni miei spunti di lettura (ti risparmio una mia traduzione, che aggiungerebbe poco o nulla al terzetto).
Antonio TABUCCHI (in DRUMMOND DE ANDRADE, Sentimento del mondo. 37 poesie scelte e tradotte da Antonio Tabucchi, Torino: Einaudi, 1987 – scheda SBN)
CONCLUSIONE
Le collisioni d’amore non sono poesia
(hanno cercato d’esserlo: aspirazione notturna).
La memoria dell’infanzia e l’autunno povero
fluiscono nel verso della nostra urna diurna.
Cos’è poesia? Il bello? Non è poesia,
e quanto non è poesia non ha parola.
Neanche il mistero, in sé, né vecchi nomi
sono poesia: coscia, furia, cabala.
Dunque, ci perdiamo d’animo. Addio, o tutto!
La valigia pronta, senza legami il corpo,
resta l’allegria d’essere soli, e muti.
Di cosa si formano le nostre poesie? Dove?
Quale sogno avvelenato risponde loro,
se il poeta è un rancoroso, e il resto è nuvole?
Virginia DE ARAÚJO (in DRUMMOND DE ANDRADE, The Minus Sign. Selected Poems, Redding Ridge: Black Swan Books, 1980 – scheda WorldCat)
CONCLUSION
THE SHOCKS OF LOVE aren't poetry
(they'd like to be: a night's ambition).
These slop their waste matter into verse:
sad seasons and a boy's contentions.
Is poetry then the beautiful? It isn't.
Nor is poetry anything unvoiced.
Even the most ancient mysteries aren't poetry,
nor are old nouns: flax, flint, coven.
So despair! Give up! Farewell to all!
The bags are packed, the body disengaged.
Spared: the joys of muteness and alcohol!
But say, what are poems made of? How?
Oh, what sour dreams will be your answer
if the poet mutinies on his rack of cloud!
Sergio PASQUANDREA (inedita in volume, per gentile concessione)
CONCLUSIONE
Non son poesia gli impatti dell'amore
(ci provarono: velleità notturna).
Memorie dell'infanzia, autunno povero,
filtran nel verso dell'urna diurna.
È poesia, il bello? Non è poesia, no, e
ciò che non è poesia, non ha parola.
Non lo è il mistero in sé, né i vecchi nomi
sono poesia: né coscia, furia, cabala.
E ci perdiamo d'animo. Addio, tutto!
Pronto il bagaglio, il corpo indifferente,
e l'allegria di essere solo, e muto.
Dove, da cosa le poesie si formano?
A quale sogno tossico rispondono,
se il poeta è un astioso, e il resto nuvole?
UPDATE: Il dibattito social su questa traduzione ha spinto anche l’Amico e Poeta Guido Cupani a cimentarsi. A questo link troverete la sua prova, condita da ampia motivazione delle scelte di traduzione, in più abbinata con la sua versione di un’altra poesia-caposaldo, This Be The Verse di Philip Larkin…
APPUNTI. Il viaggio da Tabucchi a Pasquandrea, passando per Araújo, ci offre differenti sfumature e rende possibile una maggior comprensione “polifonica” del sonetto di Drummond De Andrade. Che, come viene evidenziato in un videocommento in rete, contiene già nel titolo una certa ironia (“conclusione” che non conclude granché) e, insieme, un senso di impasse, di capolinea – altro senso della parola “conclusione”, appunto – espresso in particolare dalla splendida terza strofa che assomma allegria, solitudine, personale declino e abbandono dell’espressione.
Il Poeta, come scrivevo, procede per sottrazione (e il titolo scelto per il libro di traduzioni in inglese, The Minus Sign, allude proprio a questo marchio di fabbrica, a quanto pare comune a molte poesie di Drummond). Qui, lo fa delegittimando uno per uno alcuni dei trending topic, come si direbbe oggi, della poesia che va per la maggiore (sia come tematica che come responso del pubblico).
PRIMA STROFA. Non sono poesia gli impatti d’amore: verrebbe da tradurre gli schianti, con un richiamo a Giorno per giorno di Ungaretti, dedicata al figlio deceduto; ma il concetto mi sembra più soft, implicando più che altro lo struggimento amoroso “ordinario” dell’io poetante. Ma non appaiono poesia neanche i ricordi di infanzia e «l’autunno povero», che sia povertà d’ispirazione (cfr. Baudelaire, L’Ennemi: «Voila que j’ai touché l’automne des idées») o, mediante metafora, autunno della vita, col rimpianto e il senso di fine dei giochi che spesso si porta dietro (in questo secondo senso, la prima strofa si può raccordare col «corpo desprendido» della terza). Tutto questo materiale, che Drummond giudica, secondo me, di risulta rispetto alla vera poesia, cola dentro il verso «della» (ma può essere anche «dalla», moto da luogo) «nostra urna diurna»: omoteleuto perentorio che fortunatamente può restare in traduzione italiana e che, per metonimia, dà un senso già funerario alla nostra condizione esistenziale – dedita, dantescamente, a «ricordarsi del tempo felice / nella miseria».
SECONDA STROFA. Qui, a mio avviso, si fa caccia grossa. Infatti, neppure l’ubiqua “Bellezza”, che oggi, specie con la maiuscola, si scomoda cercandola senza posa, è poesia. Da osservare come, al sesto verso, le traduzioni italiane e inglese differiscano: le prime sono più aderenti, l’ultima lo trasforma in ulteriore esclusione, invertendo, per così dire, giudizio e criterio (non «ciò che non è poesia non ha parola» ma «non è poesia ciò che non ha parola). Più avanti, Drummond spara a un altro bersaglio piuttosto in vista: «il mistero in sé»: leggibile come quel coacervo di poesie mistiche, religiose, metafisiche, irrazionaliste eccetera – i nove decimi della mia bolla social! Più impervio mi è il passaggio sui «vecchi nomi»: la mia prima interpretazione del passaggio è che non servano/bastino vocaboli arcaici, o desueti, o comunque sfoggio di ricchezza lessicale per fare la poesia (e questo sarebbe sparare contro un altro filone di non poco conto); tuttavia questa tesi presuppone uno strumentario che non ho, ossia saper periziare molto bene il trittico «coscia, furia, cabala»: è davvero di uso poco comune in Brasile (per es., a Firenze «furia» è usato ben più di «fretta»)? E poi: davvero non ci sono sovrasensi “antichi”, in queste parole precise scelte dal poeta? Certo che sì in “cabala”, in più potremmo speculare sulla “coscia di Zeus”, da cui nacque Dioniso, e sulle furie come altro nome delle Erinni. Occorre quindi cautela nella traduzione: peraltro, ancora Araújo la mette da parte, sostituendo in toto le tre parole e mostrando di ritenere che esse siano state scelte al massimo per la loro anzianità di servizio, ma per lo più per esigenze prosodiche e rimarie («cabàla» per rimare con «fàla»). Se si crede questo, si può per es. sostituire un elemento del trittico con «fòla», che è abbastanza arcaico e desueto (tranne che in dialetto e nel famoso Credo dello Iago di Verdi/Boito: «È vecchia fola il ciel!») per farlo rimare con «paròla».
TERZA STROFA. Giunti a valle delle due quartine, il Poeta sembra farci notare che siamo rimasti completamente privi di qualunque possibilità poetica. Ci avviliamo, dunque, e ci è forza alzare bandiera bianca. Siamo pronti a questo viaggio, e parallelamente il corpo stesso matura il suo distacco (ricordiamo «o outono pobre» della prima strofa e il fatto che il Poeta, alla pubblicazione di Fazendeiro, ha passato da poco il mezzo secolo). Contemplare la propria solitudine e “mutismo in versi” – con una «allegria» che, più che ironica, è dolceamara come sa esserlo solo la sensibilità Brasiliana – assomiglia a una illuminazione, a uno stadio ultimo di consapevolezza poetica ed esistenziale rispetto alla logorrea in versi e raccolte, ma anche alla tempesta di passioni, che ci ha accompagnato negli anni precedenti…
QUARTA STROFA. …Ma è una cadenza d’inganno! Ecco infatti ricomparire di colpo le nostre poesie; e stavolta non si mira aprioristicamente a “tagliar fuori”, ma a meglio comprendere come e da dove nascano. Quasi cercando di indurre il generale dal particolare: forse qualcosa d’ignoto è sopravvissuto alla nostra tabula rasa. A ben vedere, possiamo fissare un punto psicologico-emotivo: il risentimento del poeta, il «sogno avvelenato» da cui i versi prendono forma (qui concordo al 100% con Pasquandrea: va enfatizzato che «responde», al penultimo verso, sta per “corrisponde”: la poesia risponde al sogno, esso viene prima di lei, non viceversa). Di fatto, la chiusura del sonetto, socraticamente, “conclude di non saper concludere”. Qualche fondamento poetico ancora ci sfugge. In più, direi che l’abbandono che si era teorizzato, quasi auspicato, è fatuo: presto torneremo a scrivere versi, se non lo stiamo già facendo, perché il risentimento che proviamo (in quanto esseri umani – con la «tanta irrision» connessa, sempre per stare sullo Iago di cui sopra – o specificamente in quanto membri del consorzio poetico, status particolarmente frustrante per molti motivi) è una forza motrice inarrestabile; cui potremmo affiancare la vanità, lo studium laudis di ciceroniana memoria, che spesso, oltretutto, si pone in termini di risposta quasi farmacologica al risentimento, alla frustrazione. “In conclusione”, giova restare su un non liquet (ecco l’ironia del titolo) e “concludere” che probabilmente è uno sforzo inutile (benché gettonatissimo) provare a separare ciò che è poesia da ciò che non lo è; meglio ammettere tutte le poesie alla loro qualifica e ragionare, piuttosto, in termini di loro maggiore o minore qualità.
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