BRANZINATURA 2/2023: Witold you so :)
Un’escursione attorno al romanzo “Il polacco” di J.M. Coetzee
Ho pensato a questo nome/hashtag #branzinature (scusandomi ove fosse già stato sfruttato) per aggregare spunti culturali acerbi o “nati troppo stanchi” per diventare veri e propri blog post. Le branzinature vanno in onda sul mio Substack “ortonimo” in modo totalmente irregolare. Praticamente, solo quando mi viene qualche idea. Si direbbero “spigolature” – però dalle mie parti, se chiedi «una spigola», quasi nessuno ti capisce… (questo vorrebbe essere un calembour).
Consueto avvertimento se mi segui via newsletter: se il client di posta “tronca” il messaggio, basta fare click su “view in browser”, in alto a dx.
Naturalmente puoi seguirmi via rss feed, Substack app (scelta raccomandata), o semplicemente affacciandoti sulla webpage.
Buona lettura!
WITOLD YOU SO :)
Il Polacco del Nobel 2003 J.M. Coetzee, tradotto in italiano da Maria Baiocchi e pubblicato quest’anno da Einaudi (scheda SBN), è un romanzo molto scorrevole (si legge in due-tre gg.). Ci narra di un amore anagraficamente improbabile, fatto di un refolo di fisicità e parecchia idealità; entro una vicenda in cui – in omaggio all’onomastica Dantesca – la protagonista femminile, Beatriz, sembra avere il ruolo di timoniera, persino di psicagoga, in un viaggio a due che, però, trasformerà almeno in parte anche lei.
Una curiosità che apprendo da El País è che lo Scrittore Sudafricano ha fatto uscire il libro prima nell’emisfero australe – segnatamente in Argentina, ovviamente in lingua spagnola; poi nell’Australia dove ora Coetzee risiede – e solo dopo nell’emisfero boreale – in USA, UK e via di seguito. Questa “inversione dell’asse letterario” è stata decisa dall’A. per tutti e tre gli ultimi romanzi. La causa va verosimilmente ricercata in motivi forti, identitari o egualitari; impossibile però non notare di straforo il curioso bisenso per cui pole è nominativo per polacco ma significa anche polo sud/nord :)
Il romanzo è ambientato tutto in Europa: a Barcellona, Maiorca e Varsavia. Fedele alla sua natura sgusciante, e onde non spoilerare, la presente branzinatura tralascia per quanto possibile l’intreccio narrativo, le dinamiche amorose e le personalità dei protagonisti. Del resto questo post ha già il suo bel da fare culturale: musica e poesia giocano infatti un ruolo centrale. Soprattutto la prima, dato che il personaggio “eponimo” è un pianista di fama internazionale, che incide per l’etichetta più prestigiosa. Rinomato soprattutto per le sue esecuzioni di Chopin. Di cui però passa per essere
interprete controverso. Il suo Chopin non è per niente romantico ma al contrario in qualche modo austero, Chopin come erede di Bach.
La sua performance catalana dei 24 preludi op. 28 lascia abbastanza freddo il pubblico. Beatriz stessa appare preferire, nella scaletta del concerto, la resa di una non meglio precisata sonata di Haydn, o anche di «una suite di danze» di Lutosławski che non conosceva – «piccoli pezzi (…) Le ricordano Bartók, le sue danze popolari» (dunque il mio pensiero va alle 12 Melodie popolari, del 1945). Tra l’altro il Nostro pianista condivide con Lutosławski il nome di battesimo, Witold.
Quando invece, nella seconda metà del concerto, Witold esegue il suo cavallo di battaglia ossia i preludi Chopiniani, Beatriz resta perplessa e si lascia andare, per contrasto, a un affresco immaginifico e sinestesisco {nota sarcastica verso la bolla poetica: perlomeno lei non lo chiama “recensione”!} di ciò che le dovrebbe suscitare la musica di Chopin:
lo Chopin che conosce lei è più intimo e più sottile di quello che presenta lui. Lo Chopin di Beatriz ha il potere di trasportarla fuori dal Barri Gòtic, fuori da Barcellona, nel salotto di una grande, vecchia casa di campagna nelle remote pianure polacche, mentre una lunga giornata d’estate volge alla fine, e la brezza muove le tende lasciando entrare il profumo delle rose. (…) è quello che lei vorrebbe proprio quella sera, e quello che il Polacco non le dà.
Nessuna intimità o sottigliezza, ok. Per rifarsi anche alla vox critica prima citata: Austerità, antiromanticismo. Cosa vuole dire tutto ciò? Niente pedale? Niente rubato? Una certa uniformità delle dinamiche? Non sono abbastanza competente per fare enunciazioni al riguardo.
Ho fatto un po’ di (troppo rapidi) raffronti e mi sembra “a pelle” di aver trovata una versione “asciutta, esatta” – nella mia testa (e con una certa benevolenza per il personaggio del libro) paragonabile all’approccio di Witold, come me lo immagino: è la splendida registrazione storica di Arthur Rubinstein, datata 1946, che qui ti propongo tutta d’un fiato.
Approccio interpretativo a parte, il richiamo all’eredità di Bach non è casuale neppure storicamente, perché è un dettaglio (rilevantissimo) della circostanza che ha determinato l’ambientazione spagnola del romanzo. Ossia che l’op. 28 (assieme ad altre immortali composizioni) fu in parte composta e verosimilmente completata proprio a Maiorca, precisamente alla Certosa di Valldemossa, nel nord-ovest dell’isola, dove Chopin e George Sand si erano recati per qualche mese, a cavallo tra il 1838 e il 1839, sperando che il clima dell’isola giovasse a combattere la implacabile malattia del compositore, la tubercolosi. La Celda de Chopin, ossia la cella numero 4 della Certosa, fatta di tre stanze e una terrazza panoramica, è oggi un piccolo museo Chopiniano, naturalmente oggetto di pellegrinaggio. Dal canto suo, Sand ha narrato i mesi del soggiorno in Un hiver à Majorque (1842), récit che puoi trovare facilmente online, negli archivi dediti alle opere di pubblico dominio.
E Bach, allora? L’unica partitura che Chopin, a quanto si dice, si portò dietro a Maiorca fu proprio quella del primo libro de Il clavicembalo ben temperato. Partitura di studio, sopravvissuta e fedelmente ripubblicata con le annotazioni chopiniane nel 2010 a cura di Jean-Jacques Eigeldinger. Del resto, i paralleli tra i due capolavori sono evidenti: anche l’op. 28 di Chopin è strutturata per avere un preludio per ogni tonalità maggiore e minore, proprio come quella di Bach (pur non annoverando Chopin le fughe, e presentando i preludi in successione di quinta). E la critica salutò spesso l’op. 28 come una degna continuazione del monumento bachiano.
{Plot peek: Proprio a Valldemossa Witold viene invitato a suonare per il Festival Chopin, e per un caso Beatriz e il marito hanno una casa di vacanza a pochi chilometri da lì, a Sóller…}
Nella seconda metà del romanzo, complice una grossa svolta narrativa, è invece la poesia a fare da protagonista, tramite una cartella di ben ottantaquattro poesie scritte di proprio pugno da Witold. Del resto «in Polonia la poesia è una malattia, se la prendono tutti», chiosa con aforistica arguzia e “patria autoironia” Natán, il figlio della traduttrice ingaggiata da Beatriz.
Le poesie, è evidente dalla prima lettura, sono mediocri. Quel che è peggio, Beatriz sembra urtata da un’espressione “volgare” in un verso della lirica d’apertura: tra riferimenti alti a Dante, Beatrice, Omero e Orfeo, tra eserghi dal Purgatorio o da Octavio Paz che denotano una certa frequentazione del genere… ecco che improvvisamente il poeta «ha trovato la rosa perfetta tra le gambe di una certa donna». Passaggio, questo, che la blocca e la indispone, anche per paura dello scandalo. Si capirà che si tratta di me? Che fare del manoscritto?
Progressivamente però le poesie, per quanto sempre giudicate qualitativamente povere (e lo sono, eccetto forse l’inizio dell’ultima che leggiamo: dunque rinuncio a ogni analisi e lascio il tutto a te, quando leggerai), iniziano a parlare a Beatriz, a sciogliere i suoi blocchi espressivi ed esistenziali, a provocarle un flusso di riflessioni rivelatrici. Quindi, almeno per finalità se non per fattura, si può dire che le poesie siano “riuscite”. Tra le riflessioni che suscitano, emerge ancora un rimprovero per l’austerità dello Chopin di Witold; rimprovero che sfocia in un concetto, quello di «teatralità», da un lato superficiale e tecnicamente inconsistente, dall’altro però capace di legare, nelle aspettative di Beatriz, la musica al sentimento.
Beatriz è in qualche parte mutata grazie a Witold, come ti dicevo in apertura, e questo nesso causa-effetto si ritrova plasticamente nel citato esergo alla seconda poesia, scelto dal Purgatorio: «Per entro i mie’ disiri / che ti menavano ad amar lo bene» (Pg., XXXI, 22-23; curioso come si rovescino le parti, perché nella Commedia è Beatrice a proferire queste parole, qui Beatriz ne è destinataria). Nel post scriptum che chiude il libro, poi, il percorso “obbligato” dei due si compie e s’instrada.
Ognuno dei protagonisti, in fondo, è la causa efficiente del mutamento dell’altro. E penso che un piano di lettura “gnomico” del romanzo sia la opportunità di scostare un po’ di lato, almeno qualche volta, i propri punti fermi, le proprie rappresentazioni dell’ideale artistico, così come le proprie figurazioni della vita. Per esempio, Beatriz, e qui è lo scrivente scriba Corsey a parlarti: la poesia non è mai volgare. La poesia ha il potere (l’unico asset rimastole, ormai) di “vestire come vuole” (semi-auto-cit.), ossia di fissare il registro che le pare; e quando sembra “volgare” è perché vuole essere aderente alla vita. Ha senso, per es., poetare d’amor platonico e fratellanza universale e poi, mezz’ora dopo il reading, rincasando, sfanculare a gran voce la mamma di chi non ti dà la precedenza?
Una branzinatura finale sul rapporto di Coetzee stesso con le poesie. In coda alla già ricordata intervista per El País egli afferma di aver scritto poesie fino ai trent’anni. Convintosi degli scarsi risultati, ha poi avuto la forza di tirare una riga e passare alla narrativa. In un altro articolo si ricostruisce come Coetzee in gioventù praticasse computer poetry, ossia usasse un programma di versificazione (incarnazione del versificatore di Orwell e Primo Levi?) e ogni tanto ne ricopiasse qualche stringa nelle sue poesie d’invenzione.
Alla prossima branzinatura, che chissà quando sarà (dipende dai miei neuroni). Nel frattempo, se proprio non puoi fare a meno delle mie scritture, accomodati pure nella stanza di là, dove di sicuro esce una poesia ogni venerdì pomeriggio!
Love and sea bass, RRC
Avrei sicuramente scelto Rubinstein come interprete "ascetico" di Chopin. A volte dal rigore emerge ancora più violentemente ciò che sta sotto